Vale ancora oggi la festa della Liberazione? Certo. Come dimenticare gli anni bui del Fascismo e dell’occupazione Nazista? Come non rendere omaggio ai partigiani che combatterono, al sostegno dato dalle truppe alleate?
Ma a 67 anni di distanza da quel 25 aprile del '45 sono tante le cose da mandare in soffitta. Non certamente la memoria della Resistenza, che anzi andrebbe recuperata. Ma la retorica pomposa, quella sì. Oggi un’altra liberazione ci attende, seppur con la “elle” minuscola: fatta di cose materiali e immateriali, di forma e sostanza.
Da qualche mese non c’è più il Cavaliere, ma sul terreno restano le scorie di una stagione, il berlusconismo, che ha inquinato, oltre alla politica (tutta), la cultura del nostro Paese. Abbiamo ancora tanto di cui disfarci: del qualunquismo imperante; del cinismo delle classi dirigenti; della volgarità; della mediocrità; delle parole abusate; degli stereotipi; della dialettica preconfezionata. Vale per i vecchi, ma anche per i giovani, modellati come argilla sulle incrostazioni del passato.
Basta sentirli, anche quelli che manifestano, che invadono le piazze. Fanno bene, di motivi ne hanno. E tanti. Ma la lingua che usano è ancora quella dei loro padri: “compagni sessantottini” o “camerati in camicia nera”, poco importa. Una lingua intrisa di teorie complottiste, dietrologia, presunta superiorità morale e intellettuale, portatrice - a torto - di verità assolute, di verbo da divulgare al popolo incolto e bue. Un bagno di umiltà, forza!
I filosofi hanno insegnato a coltivare il dubbio, non le certezze. Altrimenti fideismo ideologico e religioso finiscono per essere indistinguibili.
Dobbiamo liberarci della cattiva politica, non dalla politica. Chi sogna di vedere il Parlamento avvolto dalle fiamme - anche solo metaforicamente - deve sapere che oltre la legge della rappresentanza, c’è o l’anarchia o la dittatura. Prospettive poco auspicabili, entrambe, nonostante la fascinosa estetica della rivolta.
Per una volta, le elezioni sono alle porte, votiamo quelli seri, capaci, onesti e sinceri. Non quelli che promettono. Questi, peraltro, hanno ben poco da offrire. In tempi di magra persino il clientelismo arranca.
In ultima istanza - si sarebbe detto in una di quelle fumose assemblee degli anni settanta - liberiamoci di “loro”, ma anche del “noi” uguale a “loro”: della nostra sudditanza intellettuale, del nostro opportunismo, del nostro lasciar passare qualsiasi cosa con un rassicurante, e allo stesso tempo inquietante, “tanto sono tutti uguali”. E liberiamoci anche un po’ dai consumi inutili, futili, dalle apparenze. Tornare alle cose vere, alla materialità, alla natura, alla terra, non può che farci bene.
Oggi la dittatura è dentro di noi. Ci impedisce di pensare il nuovo, di apprendere dal diverso, di rispettare ciò che non condividiamo, di comprendere prima di giudicare.
Perché le cose, come rispondeva il finto Giulio Andreotti al finto Eugenio Scalfari, in quel capolavoro del cinema moderno che è “Il Divo’’, “sono molto più complesse’’. Buona Liberazione.
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