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Baby gang in città, Aiello: ''Nostri adolescenti sazi e disperati''

Riceviamo e pubblichiamo la lettera del Vescovo di Avellino, Mons. Arturo Aiello, in merito all'emergenza baby gang nel capluogo irpino.
Negli ultimi giorni sono stati registrati atti di violenza nei confronti di persone e cose in città ad opera di adolescenti che di notte fanno la ronda armati di coltelli. L’apparente tranquillità della nostra cittadina si allinea con i mali delle metropoli senza beneficiare degli aiuti e delle opportunità culturali e sociali che in esse sono fruibili. Baby-gang anche qui per le nostre strade che da tranquille diventano feroci? Che cosa spinge i nostri adolescenti a minacciare e ferire loro coetanei, a provocare risse, a vandalizzare il terminal della stazione pullman o a imbrattare le mura della Chiesa del Rosario? Quali interrogativi questi gesti rimandano alle famiglie, ai plessi scolastici, alle sedi delle Istituzioni, anche della Chiesa?
Non so le altre Istituzioni, ma sento di essere interpellato come Chiesa, insieme ai parroci e gli altri operatori pastorali, che sta vivendo la fatica della ripresa con assemblee liturgiche dimezzate, con la paura della pandemia che ancora morde, con l’aumento della povertà che bussa alle porte dei Centri di Ascolto delle Caritas, con un livello d’ansia che sale in maniera esponenziale in previsione di un autunno-inverno difficili come ora all’annuncio dell’ennesima ondata di caldo.
Oltre che un fenomeno di ordine pubblico, di illegalità e di vandalismo, dobbiamo farci interrogare da questi gesti e chiederci: cosa manca ai nostri adolescenti eternamente scontenti che fanno le fusa a casa quando si tratta di chiedere un aumento di paga e poi per strada, mai da soli, si fanno protagonisti di atti di violenza? La risposta che ogni educatore dà a questa domanda è: nulla. Non manca nulla ai nostri ragazzi, hanno il necessario e il superfluo, partono per il mare o per viaggi-premio nelle capitali europee, fumano e sniffano, fanno tardi per il rientro a notte inoltrata o alle luci dell’alba, stazionano fuori i locali o ai Cappuccini in un diario settimanale preciso e dettagliato come un calendario monastico, dormono di giorno e vivono di notte. Hanno tutto e sembrano mancare di tutto, la noia è la loro compagna inseparabile. Sono sazi e disperati.
Non ho ricette da suggerire, i fenomeni sono sempre punte di iceberg di disagi più grandi e sommersi, che debbono essere letti e approfonditi, per questo utilizzo l’intercalare “Forse” che mi concede il beneficio d’inventario e che pure potrebbe aprire un dibattito più ampio e a più voci.
Forse dobbiamo tornare ad insegnare che “la vita è bella” pur tra mille privazioni e dolori e che “esserci” vale più di ogni marca di scarpe o magliette firmate che sono solo l’involucro di un capolavoro che è la vita di ogni uomo e di ogni donna per il solo fatto di esistere. Forse abbiamo dato troppe cose e pochi “perché” o “per chi” vivere e lottare?
Forse ci preoccupiamo della ricarica del cellulare e poco di motivazioni grandi che possano sostenerli nelle mille prove della vita, abbiamo offerto opportunità, ma poche domande da togliere il sonno, idee, ma non ideali, scarpe, ma non strade da percorrere.
Forse non abbiamo trasmesso la gioia delle cose semplici, la convivialità senza abbuffate, un bicchiere di vino senza ubriacarsi, una serata con gli amici suonando la chitarra e cantando a squarciagola perché “la vita è adesso”, senza eccessi di occhi spiritati e vomitate sul pianerottolo.
Forse non abbiamo trasmesso la gioia dello sforzo per una meta (“una gioconda corsa di gara per salire un colle” direbbe Pascoli) e che una scarpinata in montagna per conquistare una vetta o la bellezza di un lago alpino valgono più di una notte a Palos in una discoteca sulla spiaggia dove i decibel accorciano le distanze per la soglia epilettica. Forse non siamo stati bravi a raccontare la bellezza di stare “abbracciati e muti come pugili dopo un incontro, come gli ultimi sopravvissuti” (R. Zero) senza fare sesso sfrenato perché Freud diceva “più faccio ciò che mi piace, meno mi piace quello che faccio”.
Forse abbiamo fallito nel tentativo di far sentire “Guarda che fuori piove, guarda che bel rumore!” (V. Rossi) e che è bello “stare abbracciati quando piove” (E. De Crescenzo), che una carezza vale più di una black room, e una lettera scritta a mano e imbucata più di cento videochiamate. Non siamo stati bravi a trasmettere il sapore del pane con l’olio o di “pane e cioccolata”.
Forse avremmo dovuto dare meno cose e più tempo, meno videogiochi e più partite a pallone, meno “Sì” e più “No”. Avremmo dovuto portarli accanto ai letti dove i loro coetanei lottano a denti stretti con la morte e “Nei giardini che nessuno sa” (R. Zero) dove giovani come loro sudano per fare dieci metri in un’ora ed è come vincere le olimpiadi. Forse avremmo dovuto farli soffrire di più e non sbracarci nella cultura analgesica che impera dove anche un mal di testa diventa una tragedia.
Forse dovremmo raccontare loro dei coetanei ucraini che, mentre qui vandalizzano il terminal della Stazione, mettono a repentaglio la loro vita per la libertà della loro patria e della loro gente. Gianni Morandi in una canzone di cinquant’anni fa dal titolo “Al bar si muore” contrapponeva lo stare stravaccati ozioso ad un tavolo mentre in Vietnam altri giovani si giocavano la vita: “Stanno sparando…”, “Prendi un caffè!”, “Stanno morendo…”, “Ma pensa per te!”. I nostri adolescenti muoiono di noia, mentre altrove si offre la vita per la libertà della propria terra.
Forse avremmo dovuto educarli ai sentimenti mentre il loro encefalogramma affettivo è piatto e non sanno dare nomi ai loro stati d’animo che restano sospesi, avremmo dovuto insegnare “che è bello a chiagnere” come chiude, nel terzo atto, Filumena Marturano finalmente convertita all’arte delle lacrime. Noi che da bambini abbiamo pianto nel finale di “Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica che portava sul grande schermo in bianco e nero il dramma dell’Italia post bellica, abbiamo voluto che i nostri figli ridessero in modo sguaiato e vuoto quando il cratere del lavoro e dei ladri di serenità è ancora così vasto e contemporaneo.
Forse siamo ancora in tempo per insegnare loro che il mondo che abbiamo trovato va lasciato ai posteri in una situazione migliore, anche la nostra città. Forse siamo ancora in tempo ad evitare altri atti vandalici impiegandoli a curare il verde e che in Piazza Libertà, come Piazza Duomo per Umberto Saba, può essere un luogo di incontro in cui “invece di stelle/ la sera si accendono parole”. Forse potremo vederli innaffiare le rose anzichè prendere a calci, come birilli, i segnali spartitraffico della metropolitana leggera.
Forse non tutto è perduto e, mentre scrivo, tanti adolescenti sono impegnati ad animare attività estive per i più piccoli, come a Parco Palatucci dove in trenta sono a servizio di duecento ragazzi per il solo gusto del bene. Forse siamo colpiti dai gesti della violenza e non vediamo i germi di bontà che affollano segretamente i luoghi dell’associazionismo, perché, si sa, “fa più rumore una quercia che cade che una foresta che cresce”.
Forse non siamo irrimediabilmente perduti e possiamo mettere in atto strategie comuni di bene dove i ragazzi salvano i ragazzi. Forse.

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